Area Sinistri stradali e risarcimento danni

Studio legale Di Lauro

La Corte Costituzionale, con la sentenza 19 giugno 2009, n. 180, ha interpretato l’art. 149 del codice delle assicurazioni ed ha chiarito che il risarcimento diretto è facoltativo e non obbligatorio.
Pertanto il danneggiato può agire con azione diretta o contro il responsabile del sinistro (azione contrattuale o extracontrattuale).

 

L’articolo 149 del codice delle assicurazioni (d.lgs. 209/2005) prevede che, in caso di sinistro fra due veicoli a motore, i conducenti dei veicoli possono rivolgere la richiesta di risarcimento dei danni a cose o alla persona del conducente o direttamente alla propria impresa con cui hanno stipulato il contratto.
La richiesta va inviata per conoscenza anche all’impresa che assicura il responsabile del sinistro.
Le condizioni di procedibilità per l’azione di risarcimento sono previste dall’art. 145 del codice delle assicurazioni: l’azione per il risarcimento diretto per danni alle cose è proponibile decorsi 60 giorni dalla formale messa in mora; invece, per i danni al conducente, trattandosi di danni fisici, diviene proponibile allo scadere di 90 giorni.

 

Il termine di 90 giorni, per l’ipotesi di risarcimento danni sia alle cose che alla persona del conducente, decorre dalla data di ricevimento della lettera raccomandata con avviso di ricevimento, formulata secondo le modalità e con i contenuti dell’art. 148 del codice delle assicurazioni. È opportuno ricordare che, ai sensi dell’art. 148 del codice delle assicurazioni, i termini suddetti decorrono dall’invio della documentazione completa (compreso il certificato di guarigione con, o senza, postumi); pertanto è opportuno inviare tali documenti con lettera raccomandata, qualora inviati successivamente all’apertura del sinistro.
La peculiarità dell’indennizzo diretto è che il danneggiato dovrà far pervenire la raccomandata con richiesta di indennizzo non solo alla propria assicurazione, ma per conoscenza all’impresa di assicurazione dell’altro veicolo coinvolto (avendo osservato le modalità ed i contenuti previsti dagli articoli 149 e 150). (Art. 145, comma 2, d.lgs. 209/2005).

 

L’azione di risarcimento diretto opera esclusivamente se si tratta di sinistri tra due veicoli a motore (come espressamente dettato dall’art. 149, al comma 1, del codice delle assicurazioni, approvato con d.lgs. 209/2005) e quindi ne sono esclusi i sinistri fra veicoli che siano più di due, oppure fra veicoli non a motore (es. biciclette) o fra veicoli e pedoni.

 

Il risarcimento diretto è previsto per i danni alle cose e per i danni alla persona “solo per il conducente non responsabile”, come previsto dal comma 2 dell’articolo 149 del codice delle assicurazioni.
Il comma 2 dell’articolo 149 del codice delle assicurazioni, poi, limita il risarcimento diretto al solo danno alla persona subito dal conducente non responsabile, se risulta contenuto nel limite previsto dall’articolo 139 e cioè se si tratta di danno biologico di lieve entità, cioè, c.d. “micropermanente” (cioè fino a 9 punti di danno biologico).

 

Lo Studio Legale Di Lauro fornisce assistenza in tutte le fasi della richiesta di risarcimento in seguito a sinistri stradali, garantendo tempestività e professionalità sin dai primi contatti.

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Domande frequenti

Cosa sono le misure cautelari?

Le misure cautelari sono dei provvedimenti emessi nel periodo intercorrente tra l’inizio del procedimento penale e l’emanazione della sentenza. Vengono adottati dall’autorità giudiziaria per evitare che si verifichino alcuni pericoli; nello specifico i pericoli che l’adozione vuole scongiurare sono: 1) difficoltà nell’accertamento del reato; 2) difficoltà nell’esecuzione della sentenza; 3) possibilità che vengano compiuti altri reati o che si aggravino le conseguenze di un reato.
Presentano determinate caratteristiche: sono strumentali al procedimento penale perché mirano ad evitare che si verifichino i summenzionati pericoli; per le stesse ragioni sono anche provvedimenti urgenti; sono incidentali in quanto è necessaria l’esistenza di un procedimento penale; agli atti deve sussistere una prognosi di colpevolezza che però, in ossequio all’art. 27 Cost., comma II, deve essere ponderata alla luce del principio di presunzione di innocenza fino alla definitività della sentenza; sono provvedimenti immediatamente esecutivi, sebbene provvisori, in quanto oltre a venir meno con l’emissione della sentenza definitiva, possono essere revocate o modificate; sono impugnabili tramite i meccanismi previsti dal codice (riesame, appello e ricorso per Cassazione); sono espressamente tipizzate dalla legge; infine possono essere disposte solo con un provvedimento del giudice di cui la giurisdizionalità delle stesse.
Vi sono diversi tipi di misure cautelari: personali (titolo I, artt. 272-315 c.p.p.) e reali (titolo II, artt. 316-325 c.p.p.).
Le personali si distinguono in coercitive (artt. 280-286 c.p.p.) che limitano alcune libertà dell’individuo, interdittive (artt. 287-290 c.p.p.) che incidono su alcune facoltà del soggetto e misure di sicurezza che vengono applicate momentaneamente con scopi cautelari.
Le coercitive, a loro volta, si suddividono in obbligatorie e custodiali: le prime comprendono il divieto di espatrio, il divieto o l’obbligo di dimora, l’obbligo di presentazione alla Polizia Giudiziaria, l’allontanamento dalla casa familiare; le seconde, invece, sono la custodia cautelare in carcere, gli arresti domiciliari, la custodia cautelare in luogo di cura.
Le interdittive includono la sospensione dell’esercizio di un pubblico ufficio o servizio, la sospensione dall’esercizio della potestà dei genitori, il divieto temporaneo di esercitare determinate attività professionali o imprenditoriali.
Le misure di sicurezza vengono applicate provvisoriamente in determinati casi come ad esempio può essere adottata la misura di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico per soggetto affetto dal totale vizio di mente.
Le misure cautelari reali invece impediscono la disposizione di determinati beni o cose (incidendo sull’aspetto patrimoniale dei beni) e si distinguono nel sequestro conservativo (art. 316 c.p.p.) e nel sequestro preventivo (art. 321 c.p.p.). Con quest’ultime misure non deve essere confuso il sequestro probatorio ex art. 253 c.p.p. che è un provvedimento adottato dal pubblico ministero.

Cosa sono le indagini preliminari?

Si tratta di una fase in cui il pubblico ministero, personalmente o tramite la polizia giudiziaria, effettua delle ricerche per valutare se la notizia di reato è fondata o no: nel primo caso eserciterà l’azione penale ex art. 405 c.p.p., mentre nel secondo presenterà al giudice per le indagini preliminari richiesta di archiviazione ex art. 408 c.p.p. In particolare ha il compito di accertare, coadiuvato dalla polizia giudiziaria, se la persona sottoposta alle indagini preliminari abbia compiuto un reato: ciò avviene in una fase prodromica a quella processuale, ricercando prove in grado di affrontare il giudizio; ha, ad esempio, la possibilità di effettuare ispezioni, perquisizioni e di assumere informazioni.
I poteri che spettano al pubblico ministero in fase di indagini sono quindi molteplici, tra cui anche chiedere al giudice di disporre il trasporto coattivo dell’indagato che si sia rifiutato di sottoporsi a interrogatorio o a confronto. Unico limite è quello di non poter effettuare direttamente l’arresto in quanto è prerogativa della polizia giudiziaria, ma può tuttavia provvedere al fermo così come disposto dall’art. 384 c.p.p.
Durante la fase processuale, ovvero quando il pubblico ministero ha esercitato l’azione penale, il soggetto nei cui confronti sono state svolte le indagini assume la qualifica di imputato nel processo penale avendo altresì il dovere di difendersi davanti ad un giudice.
L’esercizio dell’azione penale può avvenire tramite citazione diretta a giudizio ovvero presentando la richiesta di rinvio a giudizio al giudice per le indagini preliminari; in tali casi, dovrà preventivamente emettere avviso di conclusione delle indagini preliminari ex art. 415 bis c.p.p. da notificarsi alla persona sottoposta alle indagini preliminari ed al suo difensore.
Rilevante è la possibilità che spetta in capo al difensore di effettuare delle indagini così dette investigazioni difensive. Tale novità è stata prevista dall’art. 11 dell l del 7 dicembre 2000, n. 379 che ha inserito il titolo VI bis del libro V del codice di procedura penale relativo alle investigazioni difensive (artt. 391 bis – 391 decies c.p.p.).

Cos’è l’identificazione?

L’identificazione, di cui è redatto sempre verbale, è l’attività tipica di polizia giudiziaria, consistente nell’individuazione della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini e delle persone in grado di riferire su circostanze rilevanti per la ricostruzione dei fatti (art. 349), che viene invitata a dichiarare le proprie generalità e quant’altro può valere a identificarlo, ammonendolo circa le conseguenze cui si espone chi si rifiuta di dare le proprie generalità o le dà false ex art. 66. Ove occorra, si procede anche tramite rilievi dattiloscopici, fotografici e antropometrici, nonché altri accertamenti.

Ho ricevuto un decreto penale di condanna, di cosa si tratta?

Si tratta di un procedimento speciale il cui scopo è quello di saltare sia l’udienza preliminare sia il dibattimento. È disposto dal giudice su richiesta del pubblico ministero quando quest’ultimo ritenga che possa essere applicata esclusivamente una pena pecuniaria anche se in sostituzione di pena detentiva (purché non sia necessario applicare anche una misura di sicurezza). La richiesta del pubblico ministero avviene entro sei mesi dall’iscrizione della notizia nell’apposito registro delle notizie di reato. L’imputato ha la possibilità di opporsi al decreto penale di condanna entro 15 giorni dall’emissione dello stesso richiedendo o il giudizio abbreviato, o l’applicazione della pena o il giudizio immediato. Il giudice dovrà poi valutare se sussistono i requisiti per dichiarare l’opposizione ammissibile, altrimenti il decreto diviene esecutivo. Il legislatore per incentivare l’imputato a non opporsi al decreto penale di condanna ha previsto che il pubblico ministero possa chiedere l’applicazione di una pena diminuita sino alla metà rispetto al minimo edittale; inoltre il giudice può concedere la sospensione condizionale della pena. Vi sono ulteriori benefici in quanto: a) non ha efficacia di giudicato nei giudizi civili o amministrativi, b) non possono essere disposte pene accessorie e può essere applicata solo la confisca obbligatoria, c) non vi sono spese processuali, d) il reato si estingue se entro un congruo termine non vengono commessi delitti o contravvenzioni della stessa indole (nel termine di 5 anni per i delitti e di 2 per le contravvenzioni), e) la condanna non risulta dal casellario giudiziale richiesto dai privati.

Cos’è la messa alla prova?

La messa alla prova è una forma di probation giudiziale innovativa nel settore degli adulti che consiste, su richiesta dell’imputato e dell’indagato, nella sospensione del procedimento penale per reati di minore allarme sociale.
Viene introdotta con la l. 67/2014 che modifica:
• il Codice penale, con la previsione del nuovo istituto agli 168-bis, 168-ter e 168-quater;
• il Codice di procedura penale, con l’introduzione degli 464-bis e seguenti che regolano le attività di istruzione del procedimento e del processo, nonché l’art. 657-bis che indica le modalità di valutazione del periodo di prova;
• le norme di attuazione, coordinamento e transitorie del codice di procedura penale;
• il Testo unico in materia delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di casellario giudiziale.
Il d.lgs. n. 150/2022 “Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché’ in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari” interviene sull’ambito operativo della sospensione del procedimento con messa alla prova estendendolo da un lato, consentendo l’accesso alla messa alla prova anche con riferimento ad ulteriori specifici reati, diversi da quelli contemplati all’art. 550 c. 2 c.p.p., puniti con pena edittale detentiva non superiore nel massimo a sei anni, che si prestino a percorsi risocializzanti o riparatori da parte dell’autore, compatibili con l’istituto, e, dall’altro, prevedendo che la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova possa essere proposta anche dal pubblico ministero.
Altra novità introdotta dal Decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 è costituita infatti dalla proposta di messa alla prova formulata dal pubblico ministero.
Sono previsti due casi:
1. istanza formulata in udienza (art. 464-bis c.p.p.): Nei casi previsti dall’articolo 168-bis del Codice penale l’imputato, anche su proposta del pubblico ministero, può formulare richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova. Se il pubblico ministero formula la proposta in udienza, l’imputato può chiedere un termine non superiore a venti giorni per presentare la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova. La richiesta può essere proposta, oralmente o per iscritto, fino a che non siano formulate le conclusioni a norma degli articoli 421 e 422 o fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado nel giudizio direttissimo oppure, nel procedimento di citazione diretta a giudizio, fino alla conclusione dell’udienza predibattimentale prevista dall’articolo 554-bis. Se è stato notificato il decreto di giudizio immediato, la richiesta è formulata entro il termine e con le forme stabiliti dall’articolo 458, comma 1. Nel procedimento per decreto, la richiesta è presentata con l’atto di opposizione.

2. Istanza formulata nel corso delle indagini preliminari (art. 464-ter c.p.p.). L’ 464-ter c.p.p. dispone, infatti, che Il pubblico ministero, con l’avviso previsto dall’articolo 415 bis, può proporre alla persona sottoposta ad indagini, la sospensione del procedimento con messa alla prova, indicando la durata e i contenuti essenziali del programma trattamentale. Ove lo ritenga necessario per formulare la proposta, il pubblico ministero può avvalersi dell’ufficio di esecuzione penale esterna. Entro il termine di venti giorni, la persona sottoposta ad indagini può aderire alla proposta con dichiarazione resa personalmente o a mezzo di procuratore speciale, depositata presso la segreteria del pubblico ministero. Quando la persona sottoposta ad indagine aderisce alla proposta, il pubblico ministero formula l’imputazione e trasmette gli atti al giudice per le indagini preliminari, dando avviso alla persona offesa del reato della facoltà di depositare entro dieci giorni memorie presso la cancelleria del giudice. Il giudice per le indagini preliminari, se non deve pronunciare sentenza di proscioglimento ex art. 129 c.p.p. e quando ritiene che la proposta del pubblico ministero, cui ha aderito l’imputato, sia conforme ai requisiti indicati dall’articolo 464-quater, comma 3, richiede all’ufficio di esecuzione penale esterna di elaborare il programma di trattamento d’intesa con l’imputato. Quest’ultimo trasmette al giudice, entro novanta giorni, il programma di trattamento elaborato d’intesa con l’imputato. Quando lo ritiene necessario ai fini della decisione, il giudice per le indagini preliminari può fissare udienza ai sensi dell’art. 127 c.p.p. Il giudice, se lo ritiene necessario, può verificare la volontarietà della richiesta dell’imputato, disponendone la comparizione. Il giudice valuta l’idoneità del programma trattamentale elaborato dall’ufficio di esecuzione penale esterna d’intesa con l’imputato, eventualmente integrato o modificato con il consenso dell’imputato nel corso dell’udienza ai sensi dell’articolo 127 c.p.p. e dispone con ordinanza la sospensione del procedimento con messa alla prova.
Con la sospensione del procedimento, l’imputato viene affidato all’ufficio di esecuzione penale esterna per lo svolgimento di un programma di trattamento che prevede come attività obbligatoria e gratuita, l’esecuzione di un lavoro di pubblica utilità in favore della collettività che può essere svolto presso istituzioni pubbliche, enti e organizzazioni di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato. Il lavoro di pubblica utilità si può svolgere per un minimo di dieci giorni, anche non continuativi e non può superare le otto ore giornaliere.
Le mansioni alle quali gli imputati che prestano lavoro di pubblica utilità possono essere adibiti, ex art.2, c.4 del d.m. 88/2015, afferiscono alle seguenti tipologie di attività:
– sociali e sociosanitarie: alcool e tossicodipendenti, anziani, diversamente abili, stranieri, malati, minori
– protezione civile: soccorso alla popolazione anche in caso di calamità
– patrimonio ambientale: (fruibilità e tutela) prevenzione incendi, salvaguardia patrimonio boschivo e forestale, demanio marittimo, protezione flora e fauna con riguardo alle aree protette, attività connesse al randagismo animali
– patrimonio culturale e archivistico: (fruibilità e tutela) inclusa la custodia di biblioteche, musei, gallerie, pinacoteche
– immobili e servizi pubblici: (manutenzione e fruizione) ospedali, case di cura, beni demaniali e patrimonio pubblico, giardini, ville e parchi – con esclusione di quelli delle forze armate e di polizia
– specifiche competenze e professionalità dell’imputato
L’istituto giuridico della “messa alla prova per adulti” prevede, inoltre, che l’imputato svolga attività riparative, volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, attività di risarcimento del danno dallo stesso cagionato e, ove possibile, attività di mediazione con la vittima del reato.
In un’ottica di riduzione del rischio di reiterazione del reato, il programma può prevedere l’osservanza di una serie di obblighi relativi alla dimora, alla libertà di movimento e al divieto di frequentare determinati locali, oltre a quelli essenziali al reinserimento dell’imputato e relativi ai rapporti con l’ufficio di esecuzione penale esterna e con eventuali strutture sanitarie specialistiche.
Il programma di trattamento costituisce l’elemento indispensabile per accedere alla messa alla prova per adulti, del quale il giudice terrà conto nella decisione, congiuntamente ad eventuali altre informazioni che potrà acquisire tramite la polizia giudiziaria. Il programma di trattamento viene elaborato dall’ufficio di esecuzione penale esterna competente per territorio, su formale richiesta dell’interessato o del suo procuratore speciale e predisposto in base alle specifiche caratteristiche della persona imputata.
La misura può essere concessa dal giudice per reati puniti con la reclusione fino a sei anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria e per non più di una sola volta, o per una seconda, in relazione a illeciti commessi anteriormente al primo provvedimento di sospensione. È esclusa l’applicazione ai contravventori e delinquenti abituali, professionali e per tendenza.
Il procedimento non può essere sospeso per un periodo superiore a due anni, quando si procede per reati per i quali è prevista una pena detentiva superiore ad un anno, e per reati per i quali è prevista la sola pena pecuniaria.
L’esito positivo della prova comporta l’estinzione del reato.
L’esito negativo per grave e reiterata trasgressione del programma di trattamento o delle prescrizioni, per il rifiuto opposto alla prestazione del lavoro di pubblica utilità, per la commissione durante il periodo di prova di un nuovo delitto non colposo o di un reato della stessa indole di quello per cui si procede, implica che il giudice con ordinanza disponga la revoca e la ripresa del procedimento.

Cos’è il patteggiamento?

Sarebbe più corretto parlare di “applicazione della pena su richiesta delle parti”
Si tratta di un procedimento speciale che consiste nell’emanazione di una sentenza da parte del giudice sulla base di una concorde richiesta tra pubblico ministero e imputato: la decisione avviene allo stato degli atti saltando la fase del dibattimento e, per tale ragione, il legislatore ha predisposto che in caso di patteggiamento la pena deve essere ridotta fino ad un terzo. Tramite tale procedimento, quindi l’imputato conosce in anticipo la pena che verrà applicata se il giudice accetterà il progetto di sentenza: quest’ultimo dovrà solamente verificare, ove non dovesse decidere per una sentenza di proscioglimento ex art.129, che la pena sia congrua e la qualificazione del reato corretta. Tale istituto già presente nel nostro ordinamento (si veda la l. 689/1981) ha trovato larga applicazione dal momento in cui è stato introdotto il patteggiamento allargato con la legge n. 134 del 2003.
Esistono infatti due tipi di patteggiamento: quello tradizionale e quello allargato. Il primo prevede che le parti si accordino su una sanzione sostitutiva o pecuniaria o su di una pena detentiva che, tenuto conto della riduzione fino ad un terzo, non supera due anni sola o congiunta a pena pecuniaria; il secondo invece consente l’accordo su di una sanzione da due anni e un giorno fino a cinque di pena detentiva, sempre tenuto conto della riduzione fino ad un terzo, sola o congiunta a pena pecuniaria.
Nel dettaglio, il patteggiamento tradizionale non prevede un tetto massimo sulla pena pecuniaria e prevede anche ulteriori benefici: a) l’imputato può subordinare la richiesta alla concessione della sospensione condizionale della pena (se il giudice ritenesse non concedibile tale beneficio, dovrà rigettare l’intero patteggiamento poiché il giudice può solamente pronunciarsi sul progetto di sentenza delle parti, non potendolo modificare); b) non comporta al pagamento delle spese processuale, ma a quelle di giustizia o di mantenimento in custodia cautelare ove applicata; c) non comporta l’applicazione di pene accessorie; d) non comporta l’applicazione di misure di sicurezza differenti dalla confisca; e) il reato si estingue se l’imputato non commette un delitto o una contravvenzione della stessa indole nel termine di cinque anni (quando il patteggiamento riguarda un delitto) o di due anni (se riguarda una contravvenzione). È opportuno sottolineare che l’identità dell’indole riguarda solamente la contravvenzione, pertanto, qualora la sentenza di patteggiamento riguardasse un delitto, e l’imputato compisse nel termine di cinque anni una qualsiasi altro delitto, il primo reato non si estinguerebbe.
Il patteggiamento allargato non ha gli stessi benefici del patteggiamento tradizionale e prevede delle ipotesi in cui non può essere applicato; in particolare è escluso per i delitti di cui al III comma 3 bis dell’art. 51 (a titolo esemplificativo: delitti di associazione mafiosa ex art. [[n416-biscp]] c.p., di sequestro di persona o scopo estorsivo ex art. 630 c.p., di tratta di persone e delitti commessi tramite le condizione dell’associazione mafiosa), per i delitti di cui al III comma, quater dell’art. 51 c.p.p., nonché per i delitti di cui agli articoli 600 bis, 600 ter, I, II, III e V comma, 600 quater, II comma, 600 quater 1, relativamente alla condotta di produzione o commercio di materiale pornografico, 600 quinquies, nonché 609 bis, 609 ter, 609 quater e 609 octies del codice penale. Infine è escluso peri soggetti dichiarati delinquenti abituali, professionali per tendenza e per i recidivi reiterati ex art. 99, IV comma c.p.
Da punto di vista procedimentale il patteggiamento può essere richiesto dall’imputato o dal suo difensore munito di procura speciale in fase di indagini preliminari o in udienza. In particolare, la richiesta può essere presentata fino al momento della conclusione dell’udienza preliminare, fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento in caso di giudizio direttissimo o in caso di citazione diretta a giudizio; se è stato notificato il giudizio immediato, la richiesta può essere presentata entro quindici dalla notifica. Se formulata in udienza la richiesta è orale altrimenti è scritta. Quando è formulata nel corso delle indagini preliminari la richiesta può essere congiunta o munita di consenso dell’altra parte, oppure presentata da una sola parte: nella prima ipotesi, il giudice fissa con decreti l’udienza per la decisione, assegnando un termine per l’eventuale notificazione all’altra parte; nell’udienza vengono sentiti il pubblico ministero e il difensore se comparsi. Nella seconda ipotesi: il giudice fissa con decreto un termine entro cui l’altra parte può esprimere il suo consenso o dissenso e dispone che sia la richiesta che il decreto siano notificati all’altra parte a cura della parte che ha presentato la richiesta.
Circa i provvedimenti che il giudice può adottare, se sussiste il consenso della controparte il giudice, valutate la congruità della pena e la qualificazione giuridica del fatto, se non deve emettere sentenza ex art. 129 c.p.p., pronuncia sentenza di patteggiamento. Altrimenti il giudice rigetta. In questo caso, come anche nel caso di dissenso del pubblico ministero, l’imputato può rinnovare la richiesta di patteggiamento prima dell’apertura del dibattimento di primo grado: in tal caso, se il giudice la ritiene fondata, pronuncia sentenza di patteggiamento; in alternativa il giudice al termine del dibattimento, se ritiene infondato il dissenso del pubblico ministero.
Circa l’impugnazione, la sentenza di patteggiamento non può essere mai appellata dall’imputato, ma soltanto dal pubblico ministero, ove quest’ultimo avesse manifestato il proprio dissenso al progetto di sentenza, poi accolto, proposto dall’imputato. È comunque ricorribile in cassazione per vizi di legittimità.

Chi è l’amministratore di sostegno?

L’amministratore di sostegno è stato istituito con la legge n.6 del 9 gennaio 2004, con l’obiettivo di sostenere e tutelare i soggetti privi (in tutto o in parte) di autonomia e con una limitata capacità di agire. Affiancando i più deboli a livello rappresentativo o assistenziale, l’amministratore ha il compito di tutelare la loro capacità residua secondo il principio dell’autodeterminazione.
L’articolo 1 della legge n.6/2004 recita: “La presente legge ha la finalità di tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente”.
Tale norma è il frutto di una vera e propria rivoluzione giuridica e culturale nella tutela delle persone fragili. Fino al 2004, la legge italiana prevedeva istituti rigidi quali l’interdizione e l’inabilitazione. L’amministrazione di sostegno, al contrario, è uno strumento flessibile e modulabile: a seconda del grado di autonomia del soggetto, il ruolo dell’amministratore può essere quello della rappresentanza o dell’affiancamento nella tutela di tutti o parte dei suoi interessi.
A disciplinare la figura dell’amministratore di sostegno sono gli articoli 404 e seguenti del Codice Civile. L’articolo 404, nello specifico, stabilisce che ad averne diritto è la persona “che, per effetto di un’infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi”. Sulla base delle concrete esigenze del soggetto, dunque, l’amministratore di sostegno lo sostituirà o lo assisterà nelle decisioni volte alla tutela dei suoi interessi.
I requisiti per la nomina dell’amministratore di sostegno sono due:
● la menomazione fisica o psichica
● l’impossibilità di provvedere ai propri interessi
Due condizioni, queste, che devono coesistere ed essere legate da un rapporto di causalità. Significa che, per nominare l’amministratore di sostegno, la persona deve avere una menomazione fisica o psichica tale da impedire che possa curare i propri interessi.
Beneficiari della figura dell’amministratore di sostegno sono:
● i soggetti disabili, a causa di menomazioni fisiche o di infermità mentali: persone con ritardo mentale, con autismo o sindrome di Down, soggetti con patologie psichiatriche, ritardi mentali, demenza senile o morbo di Alzheimer
● i ludopatici
● i soggetti affetti da infermità fisiche (come conseguenza di ictus, malattie degenerative o in fase terminale, condizioni di coma e stato vegetativo)
Presupposto fondamentale per la nomina è che queste persone non siano in grado di attendere ai propri interessi economici, burocratici, ed amministrativi.
Può richiedere l’amministratore di sostegno:
● il beneficiario della misura, anche se minore, interdetto o inabilitato
● il Pubblico Ministero
● il coniuge, o la persona stabilmente convivente o unita con unione civile
● i parenti entro il quarto grado e gli affini entro il secondo grado
● il tutore dell’interdetto
● il curatore dell’inabilitato
Inoltre, secondo l’articolo 406 del Codice Civile, “i responsabili dei servizi sanitari e sociali direttamente impegnati nella cura e assistenza della persona, se sono a conoscenza di fatti che richiedono la nomina di un amministratore di sostegno, hanno l’obbligo di richiederlo, rivolgendosi al Giudice Tutelare o segnalando la situazione al Pubblico Ministero”.

Ho necessità di chiedere un risarcimento in seguito ad un sinistro stradale, come procedo?

Dopo un incidente stradale, la prima cosa da fare è verificare la presenza di feriti. Se ci sono, bisogna chiamare le forze dell’ordine e i soccorsi sanitari per le cure necessarie.
In questo caso, devi rimanere sul posto fino all’arrivo delle autorità. Se vai via, rischi di essere denunciato per il reato di fuga ai sensi dell’art. 189 C.d.s.
Poi, devi certamente raccogliere tutti i dati dei soggetti coinvolti (conducenti e proprietari delle auto), gli estremi dei veicoli (marca, modello e targa) e le rispettive polizze assicurative.
Poi, è sempre opportuno documentare il fatto: cioè, fare fotografie del luogo dell’incidente, dei veicoli coinvolti, della loro posizione al momento dell’impatto e dei danni subiti.
Un momento fondamentale è la compilazione del modulo di contestazione amichevole d’incidente (modulo CAI o, anche detto, modulo CID). È il documento con cui potrai denunciare il sinistro all’assicurazione.
Se firmato da entrambe le parti coinvolte, il CAI ha valore di confessione e, tra le parti, non può essere contestato: ai sensi dell’art. 143 cod. ass. priv., quanto dichiarato nel modulo si presume vero fino a prova contraria e le parti non possono dire cose diverse da quanto affermato e sottoscritto nel documento.
Questo ti mette al riparo anche dall’altro automobilista e suoi possibili ripensamenti: se nel CAI ha ammesso la propria responsabilità, egli non può non ammetterla successivamente. Ciò salvo che non dimostri che ha firmato il documento solo perché è stato sottoposto a violenza o minaccia di un danno grave alla sua persona.
Però, devi sapere che, in caso di giudizio, nei confronti dell’assicurazione e del giudice, il modulo CAI non ha lo stesso valore oggettivo e non contestabile.
Inoltre, la firma congiunta del CAI consente di abbreviare i tempi per il risarcimento.
Gli artt. 143 cod. ass. priv. e 1913 c.c. stabiliscono che, entro tre giorni dal fatto, devi presentare all’assicurazione la denuncia del sinistro, segnalando l’incidente.
Oltre alla denuncia, devi presentare la richiesta di risarcimento danni. Secondo l’art. 2947 c.c., puoi esercitare questo diritto entro due anni dall’evento.
O presenti la richiesta di risarcimento direttamente alla tua compagnia (se non sei responsabile del sinistro e l’incidente ha coinvolto solo due veicoli immatricolati in Italia e se sono derivati danni materiali o personali lievi) o all’assicurazione dell’altra parte (negli altri casi, con incidente con più di due veicoli e danni personali non lievi)
In presenza del modulo CAI sottoscritto da tutte le parti, l’assicurazione deve rispondere entro 30 giorni nel caso di risarcimento per danni materiali ai veicoli ed entro 45 giorni per quello per i danni fisici.
Invece, senza CAI, i tempi si allungano: 60 giorni per il risarcimento per danni a cose e 90 giorni per quello per danni alle persone.
E se le parti non hanno in auto un modulo CAI? Si può redigere una scrittura privata e, come si sarebbe fatto sul CAI, occorre precisare le informazioni necessarie e la dinamica dell’incidente.
Cosa succede se le parti non si accordano e non firmano il modulo CAI?
In questo caso, devi raccogliere tutti gli elementi per poter avanzare la richiesta di risarcimento all’assicurazione e dimostrare che la responsabilità del fatto deve essere attribuita solo all’altro automobilista.
Peraltro, conserva tutta la documentazione relativa all’incidente (modulo CAI, foto, referti medici etc.): essa potrebbe servirti in caso di giudizio.